Qualche giorno fa ha riconquistato i “titoloni” sulle pagine dei quotidiani guidando un manipoli di grandi talenti alla vittoria nel Mondiale Under 21. Angiolino Frigoni, sulle panchine azzurre ha vinto tanto, prima come vice Velasco con la seniores maschile, poi guidando la nazionale femminile alla prima storica qualificazione olimpica nel 2000, un risultato che da solo meriterebbe un posto nella Hall of fame della pallavolo italiana. Intervistato da Luca Bertelli per il Corriere della Sera ed.Brescia, il tecnico di Carpenedolo ha ripercorso una parte della sua vita e con il suo suo modo di fare sarcastico si è anche tolto qualche sassolino dalle scarpe. Ecco alcuni stralci delle sue dichiarazioni
NON E’ UNA RIVINCITA – “Me la sto godendo proprio – sorride – qui a casa: alzare un trofeo a 67 anni è un orgoglio particolare. Non una rivincita, anche se tanti pensavano fossimo bolliti (si riferisce anche a Velasco, ndr). Ringrazio i tanti piccoli eroi di provincia che hanno convinto i miei ragazzi a scegliere la pallavolo: al maschile, c’è ancora il problema del reclutamento. Era così anche quando io iniziai”.
L’INIZIO – “Mi convinse ad iniziare il professor Benassa, che conobbi alla scuola dei Salesiani: ero già alle superiori, eppure bagher e palleggio mi sono venuti naturali. A Carpenedolo, siamo partiti dalla Terza Divisione e siamo arrivati in Serie B. Un infortunio alla caviglia mi ha poi costretto ad allenare, quando già insegnavo educazione fisica”.
PRIMA SQUADRA – “Un gruppo di ragazze autodidatte, cui diedi qualche indicazione: arrivammo alla finale dei Giochi della gioventù. Indimenticabile. A piccoli passi sono arrivato sino alla Serie A1 a Montichiari, dove ci trasferimmo da Carpenedolo per motivi logistici”.
L’INCROCIO CON VELASCO – “Sì, da avversario. L’occasione per conoscerci arrivò però durante un corso curato a Roma da Doug Beal: all’epoca era l’allenatore migliore del mondo. Prendemmo un taxi per andare in aeroporto, siamo entrati in sintonia. Anche se, quando mi ha chiamato per seguirlo in nazionale, pensai a uno scherzo”.
NON ERA UNO SCHERZO – “Ero convinto fosse un’imitazione del mio giocatore Daniel Quiroga, argentino. Quando ho capito, dissi a Julio che lo avrei seguito in nazionale anche in bicicletta … e iniziammo a vincere In modo inaspettato, a partire dall’Europeo del 1989 in Svezia. Ma lui ci ha sempre creduto. Il grande segreto di Velasco era, e resta, la capacità di responsabilizzare i collaboratori e di saperli motivare. Con lui si può crescere sbagliando”.
LA VOGLIA DI ALLENARE – “Velasco ha ancora voglia di allenare. Come naturale che sia. E io gli lascio dirigere alcuni allenamenti, è un uomo sempre capace di rinnovarsi. Le dirò: ritornare in pista, per di più con un gruppo giovane, non era facile. Non allenavo da quattro anni: avevo dovuto lasciare la nazionale egiziana per problemi di salute. Ma a Julio non potevo dire di no”.
RAGAZZI ESIGENTI –
“Sono ragazzi esigenti, ho visto alcuni di loro allenarsi durante il lockdown facendo squat con una trave. In più vanno tutti all’università e io li lascio liberi quando hanno un esame: la pallavolo è per pochi, non può essere l’unica strada per i giovani”.
IL DOLORE – “Appresi della morte di mio figlio in Russia, dove allenavo. Mi cadde il mondo addosso. Sono cose che lasciano un segno permanente, io continuo a soffrire, non passa. Ma la pallavolo mi ha insegnato a guardare avanti, senza farsi ammazzare dai sensi di colpa. Mia moglie e i miei giocatori mi hanno aiutato a non subire la sofferenza, a trovare una chiave. Ora riesco a parlarne. E sono diventato nonno, sa?”.
SMETTERE? – “Ora voglio solo godermi le gioie che sanno darmi la vita, lo sport. Non so se allenerò ancora le nazionali giovanili, ma non mi pongo limiti. Sì, la pensione può attendere”.
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