Pallavolo Parigi 2024 – La storia olimpica de ‘O Fenomeno” Samuele Papi e delle sue 4 medaglie

(Laerte Salvini per iVolleymagazine.it) Mentre Parigi in questi giorni sta accogliendo atleti di ogni nazione per la XXXIII Olimpiade moderna, nel mondo della pallavolo c’è un uomo che i cinque cerchi li ha cuciti sulla pelle, tanto da essere l’unico pallavolista italiano ad aver ottenuto 4 medaglie olimpiche: Samuele Papi. A ‘O Fenomeno’ come lo soprannominò con grande arguzia Gian Luca Pasini, è mancato solo l’oro olimpico in una bacheca piena di trofei. Ha ripercorso insieme a noi i suoi viaggi olimpici. Dalla ‘Generazione dei fenomeni con Velasco al bronzo con Berruto. Senza dimenticare il viaggio a Tokyo come accompagnatore.

FAVORITI DI TUTTI – Nel ‘96 i favori del pronostico sono tutti per gli azzurri: ”La prima Olimpiade di Atlanta rappresentava per me un’esperienza diversa dalle altre – racconta Papi – Ricordo la sfilata di apertura, quando entri dentro uno stadio con 70-80 mila persone, cose mai vissute da pallavolista. A detta di tutti gli addetti ai lavori eravamo la squadra deputata a vincere l’oro, prima di arrivare alle Olimpiadi c’era molta pressione. Da fuori tutti davano per certa la nostra vittoria, ma tra di noi sapevamo che sarebbe stato. Alla fine andò così e fu una delusione tosta, sia per chi era all’ultima partecipazione ai giochi che per chi aveva ancora una carriera davanti a sé. Rispetto alle edizioni successive a cui ho preso parte, vivevamo in un ambiente molto riservato, in una società profondamente diversa da quella odierna. L’emblema di ciò era rappresentato dalle cabine telefoniche, dove con delle schede avevamo la possibilità in quell’occasione di sentire i nostri cari”.

RIMASTI COMPATTI – “Essere un gruppo unito è stato molto importante. Anche dopo la delusione della finale siamo rimasti compatti perché molti di noi avevano ancora tanti anni per poter ripartire da quel momento in poi, cercando di raggiungere risultati importanti. La squadra nelle diversità dei singoli ha trovato un’unità, dai più giovani a chi aveva più esperienza. L’alchimia creata ha poi portato negli anni successivi a diversi successi per la Nazionale, pur senza l’oro delle Olimpiadi”.

JULIO VELASCO – “Trattava tutti allo stesso modo. Velasco studiava molto i caratteri e la personalità dei propri ragazzi, quindi sapeva come prenderli e affrontarli. La sua grande capacità è stata quella di far credere ad ognuno di noi che potessimo essere i migliori a livello mondiale. Sentivamo questa consapevolezza e ci faceva capire di essere i più forti giocatori del mondo. Da questo punto di vista è stato molto bravo a instaurare una mentalità vincente”.

SEI IN UNA BOLLA – “A differenza delle altre competizioni, alle Olimpiadi sei in una bolla. La bellezza e la particolarità dei giochi non è tanto la partita che giochi al palazzetto, ma quello che ti succede attorno fuori dal momento della partita, dove sai cosa fare. In mensa può capitare di condividere momenti con tantissimi campioni, cogliendo l’opportunità di confrontarti o scambiare due chiacchiere. L’Olimpiade è un concentrato di atleti, considerando che per ogni manifestazione ce ne sono circa quindicimila. Era bello condividere con atleti italiani le varie esperienze. Il bello di essere lì è che hai modo di stare con altri atleti che come te stanno vivendo le loro difficoltà e sofferenze per arrivare pronti a questa manifestazione. Si tratta dell’evento più importante di tutti, per noi in Italia ancora di più dato che nella pallavolo non siamo mai riusciti a vincerla, con il gruppo di Parigi e i prossimi che saranno chiamati a provare a vincere questa medaglia d’oro. Va detto in ogni caso che negli anni vincere e portare a casa una medaglia è sempre un grande traguardo”.

VERSO SYDNEY – “Ci sentivamo una squadra che comunque poteva andare a medaglia – prosegue Papi – Abbiamo sbagliato una sola partita contro la Jugoslavia, squadra che poi vinse quell’edizione. Dal mio punto di vista quella è stata la vera finale. Come in tutte le cose, quando manchi soprattutto nei dettagli, in quelle piccole cose che di solito fai bene e che poi sbagli, ad alti livelli come in questo caso perdi. Il gruppo era ben distribuito, forte, ci è mancata solo quella partita lì. La particolarità di Sydney è che non erano riusciti a finire per tempo il villaggio olimpico, quindi alcuni atleti erano stati sistemati nei Bungalow. Io e Marco Meoni alloggiavamo in questa sorta di container, dove quando faceva caldo era terribile e quando pioveva faceva freddo e sentivi tutto. Alla fine ricordo quest’esperienza con piacere, l’importante era partecipare ai giochi, al resto ci si adattava”.

FINALISTI A SORPRESA – ”Nonostante avessi già diverse esperienze alle spalle, non avevo molto da trasmettere a chi partecipava alla prima Olimpiade. Parliamo di ragazzi attaccatissimi alla maglia azzurra e ci tenevano molto a far bene. Eravamo un gruppo volenteroso di provare a fare qualcosa di importante, per gli atleti era un sogno essere lì. La squadra in quell’edizione era compatta, abbiamo giocato un’ottima pallavolo. Ad inizio 2004 nessuno ci avrebbe messo come squadra finalista, sapevamo di poter andare a medaglia, giocammo un’ottima Olimpiade prendendoci con merito la finale e l’argento. La sensazione che si aveva è che quel Brasile lì aveva di più rispetto a noi. Noi ci abbiamo provato, dando il massimo, ma nel corso della partita si sentiva che non riuscivamo ad essere padroni del gioco. Potevamo stare attaccati lì con loro, ma se il Brasile avesse alzato il livello con 3-4 azioni consecutive, potevamo andare sotto. Giocavamo con “l’acqua alla gola”, senza mai riuscire a prendere margine. Alla fine ti resta sempre il rammarico di una finale persa, ma ancora oggi penso che quella nazionale avesse qualcosa in più di noi. A differenza dell’edizione del 96’, la sensazione era che essere arrivati in finale era già tanto.

NIENTE PECHINO – ”Del gruppo di Pechino conoscevo tanti ragazzi, era una squadra che mi piaceva. Prima di prendere una decisione ci eravamo sentiti con l’allenatore, se volevo tornare in Nazionale dopo aver dato l’addio nel 2006. In quell’estate non credo mancasse la voglia da parte mia, ma quel desiderio di rimettersi in gioco e lavorare per quattro mesi. Non si tratta solo di giocare le Olimpiadi, ma di fare tutto il lavoro che c’è dietro per arrivarci. Ripensandoci oggi mi è dispiaciuto non accettare questa opportunità, ma è andata così ed è inutile piangere sul latte versato”.

L’ULTIMO ASSOLO – A trentanove anni l’ultimo assolo con la Nazionale: ”Nel 2012 il mio approccio fu diverso. Mi ero trasferito a Piacenza e a 38 anni avevo fatto un bellissimo campionato. Rimasi personalmente stupito del mio rendimento. Mi chiamò Mauro Berruto chiedendomi se volessi andare alle Olimpiadi in un ruolo chiaramente diverso perché i titolari giustamente erano altri. Si può dire che è stata la ciliegina sulla torta della mia carriera. Mai avrei pensato che Berruto mi chiamasse per essere tra i dodici che andavano a giocare l’Olimpiade. Non potevo rifiutare perché sapevo sarebbe stata la mia ultima occasione di prendere parte ai giochi. Avevo un ruolo diverso all’interno del gruppo ma mi andava bene. Mi sono divertito, ero l’elemento più esperto che aveva già vissuto tantissime esperienze, conoscevo i ragazzi. Abbiamo faticato molto, ma alla fine siamo stati bravi a vincere un bronzo olimpico. L’Olimpiade di Londra l’ho vissuta benissimo. A differenza degli anni precedenti iniziavano ad esserci i social. Prima di iniziare era stato organizzato un corso su cosa pubblicare e cosa no, per possibili problemi legati alle scommesse. Rispetto all’edizione di Atlanta, dove l’unico posto per mettersi in contatto con il resto del mondo erano quelle cabine telefoniche, a Londra era già un mondo connesso. In mezzo c’è stato un vero cambiamento della società”.

300 PRESENZE – ”Dal punto di vista umano la maglia azzurra mi ha dato tantissimo. Alla fine vengono analizzati i numeri, successi e vittorie, ma quello che si vive in nazionale resta. Ho avuto l’opportunità di girare il mondo, entrando in contatto con culture diverse, esperienze a mio avviso impagabili. Oltre il solo risultato sportivo, queste esperienze di vita ti aprono la mente e soprattutto ti fanno essere parte di un percorso dove entri talmente tanto in simbiosi con i tuoi compagni che alla fine del viaggio ti lascia tanto umanamente. Alla fine nella carriera di un giocatore i risultati sono importanti, ma insieme alle prestazioni penso sia altrettanto importante vivere l’esperienza quotidiana che si fa nel collettivo”.